In Italia, la memoria delle vittime della mafia spesso richiama volti noti e simbolici: Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Pio La Torre, Carlo Alberto Dalla Chiesa.

Questi nomi sono giustamente celebrati, ma non possono e non devono oscurare il sacrificio di molti altri che, pur meno conosciuti, hanno perso la vita nel contrasto ai soprusi mafiosi o, talvolta, a causa di errori e ingiustizie generate dalla stessa macchina della giustizia.

La storia di Antonino Burrafato è emblematica di questo “secondo piano” della memoria. Vicebrigadiere e agente di custodia al carcere di Termini Imerese, Antonino era un uomo integerrimo, scrupoloso nell’applicazione del regolamento. Nel 1982, notificò al boss mafioso Leoluca Bagarella un’ordinanza che negava una concessione di permesso, un atto dovuto ma carico di conseguenze. Pochi giorni dopo, un commando armato gli sparò uccidendolo mentre tornava al carcere. Aveva 49 anni.

Per anni, il suo nome è rimasto ai margini della storia ufficiale. A ricordarlo è stata principalmente la sua famiglia, con il figlio Salvatore che ha portato avanti la memoria attraverso libri, film‑inchiesta e iniziative digitali.

Nel 2006, Antonino è stato insignito della Medaglia d’oro al merito civile alla memoria e riconosciuto “Vittima del Dovere”. Ma resta un esempio di come molte vite, seppur silenziose, siano state spezzate dal coraggio e dall’onestà.

Questa situazione solleva una domanda fondamentale: perché il ricordo e la tutela di queste vittime, “gli ultimi”, gravano quasi esclusivamente sulle spalle dei familiari e dei pochi amici? Perché le istituzioni non assumono un ruolo più attivo nel conservare e tramandare questa memoria?

Le vittime di mafia e di ingiustizie, anche quelle causate da errori giudiziari o da scelte discutibili, meritano uno spazio istituzionale permanente.

Occorre una Fondazione nazionale per le vittime “di tipo B”, che raccolga, tuteli e valorizzi il ricordo di tutti coloro che hanno pagato con la vita o con grandi sacrifici la difesa dello Stato e della legalità.

Il concetto di “vittime di giustizia” include non solo chi ha combattuto criminalità organizzata e soprusi mafiosi, ma anche coloro che sono rimasti vittime di errori giudiziari, abusi di potere, o scelte ingiuste, sia in buona fede che per convinzioni errate.
Riconoscere questa complessità non significa sminuire il valore della lotta antimafia, ma abbracciare un’idea di memoria più completa e umana, capace di valorizzare il sacrificio e la sofferenza in tutte le sue sfaccettature.
Ricordare tutte le vittime — quelle celebri e quelle silenziose — non è un esercizio nostalgico o retorico, ma un atto di giustizia sociale e di responsabilità civile. È un modo per proteggere la democrazia e costruire una società più consapevole e rispettosa delle regole.
Un messaggio di speranza e impegno per il futuro
Oggi, grazie all’impegno costante di Salvatore Burrafato, che con forza e dignità porta avanti la memoria di suo padre Antonino, non si sta solo ricordando un singolo uomo, ma si sta onorando il sacrificio di tutte le vittime della giustizia e della mafia che troppo spesso restano nell’ombra.
Il suo lavoro, fatto di testimonianze, iniziative digitali e di sensibilizzazione, rappresenta un faro per le nuove generazioni e un richiamo alla responsabilità collettiva.
È con questa speranza che guardiamo avanti, certi che la memoria diventi sempre più uno strumento vivo di legalità, impegno civile e rinascita sociale.
