Uno sguardo dal ponte-2

Una riflessione sullo strumento dell’intervista, e un dialogo con Gregorio Nardi, musicista e direttore artistico del Flo.Re. Festival di Firenze

L’intervista è uno strumento conoscitivo prezioso. Per le caratteristiche di autenticità e immediatezza, flessibilità, interazione e contraddittorio, è la via maestra per comunicare una notizia, rendere anche quella più arida un contenuto coinvolgente. La sua ragion d’essere è nell’istituire un dialogo, possibilmente strutturato, tra chi pone le domande e chi risponde, per raccogliere informazioni, opinioni, testimonianze e punti di vista su un certo argomento o evento. La sua importanza risiede nel dar voce ai protagonisti, creare con loro empatia e connessione, anche per fornire analisi, interpretazioni, approfondimenti, commenti, ricostruire ricordi e accadimenti, nell’ottica di un’informazione corretta e pluralistica. Filtra attraverso essa una narrazione personale, con il corollario di emozioni, motivazioni, sfumature che difficilmente emergono da altre forme di indagine e di reportage. L’intervista è insomma, per sua natura, il mezzo per umanizzare la notizia: dà un volto e una voce ai fatti.

Tuttavia, presenta anche delle criticità. Va considerata la soggettività di chi dà risposte, influenzate dalla prospettiva, dai pregiudizi, dagli interessi e dalla memoria, non sempre accurata o imparziale; la disponibilità dell’intervistato a mettersi in gioco, dedicare il tempo opportuno alle risposte. V’è poi il cosiddetto “effetto palcoscenico” che, consciamente o meno, influenza colui che si intervista, il quale, consapevole che si sta registrando o riportando il proprio pensiero, può assumere un atteggiamento artefatto, o troppo cauto, perdendo in spontaneità e in verità.

Esiste inoltre un’ulteriore insidia, piuttosto subdola, che talvolta mina questo delicato mezzo di informazione: può accadere che l’intervista trascolori in un lavoro di routine. Per mancanza di tempo, d’interesse, o per abitudine l’intervistatore può ricorrere anche inconsciamente a griglie predefinite di domande, a seconda del contesto, senza quell’approfondimento o quella conoscenza necessari. Del pari, l’intervistato può trincerarsi dietro risposte prevedibili, standardizzate, non dedicando il tempo dovuto. Si determinano, così, dei dialoghi monchi, delle occasioni perdute, che nulla aggiungono alla conoscenza e alla curiosità dei lettori o degli ascoltatori.

Nelle presentazioni di kermesse artistiche e culturali l’intervista presenta poi delle specificità: oltre ad informare, è un fondamentale vettore per la promozione e la creazione di aspettativa attorno all’evento. È uno strumento di marketing, di costruzione di un’immagine mediatica, di comunicazione di un’identità e di una visione, poiché ogni happening ha un suo concept, un pubblico di riferimento – una sua anima, potremmo dire. L’intervista serve dunque anche a comunicare questa identità, spiegando la filosofia dietro la scelta degli artisti, dei temi, dei luoghi. Per presentare i programmi esistono vari mezzi, dai comunicati stampa alle informative date sui siti web, ma lo scambio dialogico può raccontare l’evento non solo con dati e nomi, ma con le storie, le passioni, le visioni di chi lo organizza e vive, creando così un legame emotivo con il potenziale pubblico. Rispetto a un asettico comunicato, un’intervista (soprattutto video o audio) può insomma offrire un contenuto fresco e dinamico, ideale per i social media e l’universo digitale. 

Ma in un tale contesto l’insidia cui si accennava è forse ancor più presente: il pericolo della routine, un chi pone le domande e in chi risponde, può diventare esiziale. Il rischio della ripetitività innanzitutto; della banalità o superficialità dell’interazione, e così via.

Riflettevo su questi ed altri aspetti mentre rileggevo le risposte datemi da Gregorio Nardi, nella veste di direttore artistico del Flo.Re. Festival – La Verde Armonia, Musica e Natura, che dal 25 giugno al 14 luglio animerà Firenze e l’area metropolitana con un ricco programma, intitolato quest’anno “Arbore Amica”. Ebbene, la qualità delle risposte, il coinvolgimento emotivo nei temi proposti, non corrono certo i sempre temuti rischi – soprattutto da chi conduce le interviste – cui si accennava. Non sarà un caso che, prima di essere il Direttore artistico del festival fiorentino, Nardi è un artista. Nipote dello scrittore e politico Piero Bargellini (che fu anche sindaco di Firenze), pluripremiato pianista (è stato allievo di Wilhelm Kempff, ha suonato con celebri orchestre, tra le sue pregevoli incisioni figurano opere di Listz, Schumann, Hummel, Schönberg), esperto e divulgatore di musica classica come di contemporanea, con una lunga esperienza nella direzione artistica di fondazioni e associazioni musicali, Gregorio Nardi nelle sue risposte dà davvero l’impressione di una dedizione al ruolo, di passione in quel che fa, si una ricercata profondità d’analisi che, a mio avviso, rende l’intervista quel che dovrebbe sempre essere: un potente strumento di storytelling e promozione, di conoscenza reciproca e di dialogo fruttuoso. La proponiamo qui, incuriositi di sapere se anche nel lettore susciti gli stessi sentimenti che hanno ispirato questo post.

Qual è il tratto distintivo di questa undicesima edizione del Flo.Re. Festival?

Il nostro Festival è consacrato alla musica classica: un’arte che, per quanto meravigliosa, nei decenni ha rischiato di perdere il contatto col pubblico. Troppo spesso si tratta, in definitiva, soltanto di trascorrere un’ora piacevole lontano dai mille problemi che ci affliggono. Peccato… perché la musica è stata – e ancora potrebbe essere – la voce dei massimi ideali, l’espressione più immediata dei grandi mutamenti, dei moti rivoluzionari, l’espressione della fede più ardente, il modo irresistibile di dichiarare il proprio dolore, la propria insoddisfazione, paure e speranze. Il desiderio iniziale è stato dunque di dimostrarlo, e di radunare intorno alla musica gli spunti provenienti dall’impegno civile. La scelta è caduta sui temi della difesa della natura, che saranno al cuore anche delle prossime edizioni. Quella di quest’anno è dedicata agli alberi. È uno degli argomenti che ci sono più prossimi, i nostri grandi vicini verdi coi quali conviviamo senza nemmeno rendercene conto. La società antropocentrica li ha relegati a un ruolo decorativo. In effetti li ignoriamo appieno: non conosciamo i loro nomi, la loro età, le loro necessità, le loro risorse e quelle che possono donarci. In tal modo c’è spazio per le più sconsolanti ipocrisie: qualsiasi potentato con quattro frasette clamorose può proclamare il suo impegno per il verde circostante, si farà fotografare davanti alla siepe di un giardinetto di periferia, definirà “verde” la propria politica, poi se ne laverà le mani, sapendo che ai cittadini mancano tempo e voglia per andare a controllare l’operato della giunta o del ministero. Il Festival vorrebbe allora ridestare l’interesse e ricordare a chi ascolta che è tempo di muoversi. 

In che modo la musica, altissima espressione della cultura, si integra e relaziona con la natura e in particolare con l’approccio sostenibile alla sua fruizione?

È esattamente la domanda che ci siamo posti organizzando il Flo.Re. Festival.  Di certo non ci siamo illusi di poter cambiare il mondo grazie a una ventina di appuntamenti artistici. Si doveva però smuovere in qualche modo le acque, non bastava professare il nostro profondo rispetto verso l’universo verde, col rischio di contemplarne la bellezza ma, in definitiva, di restare silenziosi. Si è trattato di interpretare gli alberi in modo nuovo – e allora ci saranno incontri con autentici esperti nella cura del verde, nella convivenza con gli alberi, nell’utilizzo sostenibile del legname e nel riciclaggio dei suoi prodotti – oppure in un modo antico, dimenticato: lo sguardo degli artisti che nei secoli hanno ammirato e amato gli alberi e le foreste, specchiandovi le proprie intime aspirazioni, e ampliando in tal modo enormemente il punto di vista dei loro contemporanei. Per Schumann gli alberi rappresentano il simbolo vivente della cultura germanica; per Schubert, gli amici fedeli che ci accompagnano fino alla morte; per Sibelius, la frontiera della patria; per il russo Šostakovič sono metafora della massa, del popolo; per l’americano Ives, delle salde radici della nostra memoria. L’arancio di Poulenc è secco, il susino di Eisler è gracile, la quercia di Szymanowski è caduta, sotto il melo di Rückauf la vita è bella, sotto l’acero di Karłowicz la solitudine è insostenibile. Per qualcuno la foresta è il luogo del pericolo, laddove ci aspettano l’orco e la fata seduttrice; per altri sono un varco, attraverso il quale si rende possibile l’incontro con le Divinità. A nessuno di questi maestri interessava se l’albero sporca, se i rami rischiano di cadere: gli unici argomenti che sembrano toccare i cittadini oggigiorno. La mia speranza? Che, la mattina dopo il concerto, qualcuno del pubblico posi uno sguardo nuovo sull’alberello piantato nell’aiuola dinanzi a casa. E trovi il coraggio di amarlo e rispettarlo. E prenda finalmente la decisione di conoscerlo. 

Nella sua lunga carriera lei ha esplorato versanti inediti della produzione musicale; quanto di questa particolare sensibilità è confluito nella direzione artistica della manifestazione fiorentina?

Sono allergico alle definizioni estetiche troppo strette – cosa sia classico e cosa “leggero”, cosa sia geniale e cosa di intrattenimento, cosa rappresenti un valore universale e cosa sia invece liminare – e per questa ragione, come pianista, ho sempre cercato di proporre accostamenti inediti, composizioni sconosciute assieme ai massimi capolavori, brani di autori provenienti da culture che vengono generalmente considerate provinciali, marginali, e a mio avviso non lo sono affatto. Spero che questa linea sia chiara al pubblico fin dal concerto d’inaugurazione, laddove l’Opter Ensemble interpreta Johannes Brahms e il contemporaneo Mario Pagotto; le Tuscae Voces spazino da Claudio Monteverdi a Bruno Bettinelli; il Florence Accoquartet affianca Bach e Piazzolla. Io stesso, col soprano Giulia Peri, imbandirò un panorama di cechi, tedeschi, norvegesi, americani, finlandesi, polacchi, svizzeri, russi, inglesi e francesi, tutti nella stessa serata: canzoni popolari e Lieder, espressionismo e ritmi sincopati, melodie yiddish e strutture neoclassiche. Abbiamo ereditato un tesoro inesauribile di sensazioni, concetti, affetti, ideali, progetti. Avverto come una minaccia ogni tentativo di restringerne la scelta, di creare categorie a tavolino, dettate unicamente da preconcetti. Non necessariamente chi propone un accordo di do maggiore è ispirato dal genio; non necessariamente chi getta una pallina di gomma nella cordiera è animato da propositi truffaldini. Per muoversi in tanta dovizia è necessario sviluppare gusto, conoscenza, coscienza storica, e non ascoltare i pregiudizi, le opinioni tanto granitiche quanto infondate. 

Nel Flo.Re. Festival la valorizzazione della bellezza dei luoghi procede di pari passo con un’offerta concertistica di assoluta rilevanza: è questa la chiave per coinvolgere e attrarre il pubblico giovanile, distratto da altre forme di comunicazione? 

Lei non immagina cosa darei per sapere se tale fatidica chiave di coinvolgimento esista e quale sia. Nel mondo della classica la cerchiamo tutti da anni, e ogni volta scopriamo disincantati che i giovani ricominciano ad affollare le sale del teatro di prosa, o di altri tipi di musica, e addirittura i cinema. Ma la classica sembra aver perso il suo appeal. Persino i ragazzi che studiano musica, e che suonano uno strumento, si muovono forse per i grandissimi nomi (e spesso neanche per quelli) ma in generale non provano alcun interesse per le interpretazioni dal vivo. E non è colpa del web, come sembrerebbe di primo acchito. È vero che è molto facile ascoltare musica via web, ma la fuga dei giovani dalle sale di concerto era già un problema negli anni Ottanta, sebbene non paragonabile al vuoto odierno. I luoghi storici di Firenze di cui Lei mi parla sono spazi di straordinaria bellezza, e li abbiamo scelti per indurre il pubblico a un ascolto creativo. Possono anche distrarre, e questo non è necessariamente un male, perché significa calare la musica nella realtà che ci circonda e non in un’estensione astratta, come avviene nelle sale da concerto. Sussiste però la necessità di restare seduti e in silenzio, e per l’intera durata di lunghi brani. E questo non può in alcun modo sedurre i giovani irrequieti – quegli stessi che duecento anni fa proprio nella musica scoprivano una messe di violente, travolgenti emozioni che il teatro e la letteratura, assoggettati il più delle volte alla censura, non gli avrebbero offerto. 

In che modo la classicità può coniugarsi in un fruttuoso dialogo con l’innovazione tecnologica? Tutte le volte che si tocca l’argomento dell’innovazione, i musicisti classici riescono solo a elencare un’esigua lista di strategie della comunicazione: pubblicità, amplificazione, streaming… In realtà è difficile immaginare qualcosa che possa portare a un’evoluzione di un’arte così antica e immutabile. Davvero qualcuno vede la necessità di eseguire i capolavori di Beethoven su un quartetto d’archi elettrici, filtrati digitalmente tramite un algoritmo? Sarebbe come sostituire la katana, la spada usata nell’arte marziale del iaijutsu, con una spada laser mutuata da Guerre Stellari. Eppure capisco la domanda e mi arrovello come tanti altri: la tecnologia ci sta portando su Marte, eppure quel che le richiediamo è null’altro che un tabellone su cui far scorrere i testi cantati da una soprano. Insomma, temo di potere rispondere unicamente con ulteriori interrogativi. E difatti mi chiedo se non stiamo appoggiando la scala al muro sbagliato. Forse il vero potenziale della musica classica, il suo futuro, si esprimerà facendola uscire dai luoghi troppo ampi, dalle assemblee numerose e anonime, dalla bieca commercializzazione, dalla volgarizzazione riservata ad altre forme d’arte capaci di sopportarla agevolmente. Sto pensando a piccoli spazi, a occasioni più private, a un rapporto diretto fra interprete e pubblico, intensamente umano. E, mi creda, questo non vuol dire in alcun modo rinunciare al vasto pubblico. Per fale un esempio: il kodan – la tradizionale lettura ritmica delle saghe giapponesi – era un’arte quasi sparita. Adesso i giovani di Tokyo prenotano con mesi di anticipo per ammirare la maestria dei nuovi virtuosi in salette che a volte non superano i venti, trenta posti. Chissà che non sia questa l’anima autentica della musica classica, l’opportunità di farle smettere vesti troppo austere, ufficiali, e renderla di nuovo aggregante e formativa. E assai più emozionante per i giovani.