Donna, prima che attrice. Un sintetico ritratto di Claudia Cardinale
Quando scompare un grande personaggio pubblico l’infosfera in cui siamo immersi rigurgita di articoli, ricordi, podcast, video e quant’altro. “Coccodrilli” preparati da tempo, pezzi estemporanei creati sull’onda dell’entusiamo. Anche per Claudia Cardinale è stato così, ovviamente, considerando la sua rilevanza, davvero inossidabile pur essendo ormai da anni scomparsa dall’attenzione mediatica. Queste scarne righe non ambiscono a raccontarla compiuamente – ci vorrebbero volumi interi –, sono intese come note a margine, appunti per chi quotidianamente lotta con l’oblio.
“Io non mi sono mai considerata un’attrice. Sono solo una donna con una certa sensibilità: è con quella che ho sempre lavorato”. Così definiva la sua arte attoriale Claudia, che in un sessantennio di carriera e oltre 150 film ha saputo mettere a frutto con grande discernimento i beni preziosi di cui la natura l’aveva dotata: talento, bellezza, fascino, intelligenza e, appunto, sensibilità.
Non sono molte le attrici che, come lei, hanno saputo servire registi diversissimi tra loro, guadare generi e contesti differenti, coniugare sensualità, empatia e presenza scenica per dare vita a personaggi memorabili. E, in verità, attraverso le sue interpretazioni passa la stagione artisticamente più alta del nostro cinema: dalla virginea Carmelina de I soliti ignoti (1958) di Monicelli, all’Assuntina di Un maledetto imbroglio (1959) di Germi, il quale, come ella riconobbe, le insegnò a rapportarsi con la macchina da presa; alla Ginetta di Rocco e i suoi fratelli (1960) di Visconti, che poi le affidò ne Il Gattopardo (1963) quello di Angelica Salina, giovane aristocratica che incarna il cambiamento sociale dell’Italia post‑unitaria, segnando così la sua maturità di attrice; dalla determinata Barbara Puglisi di Il bell’Antonio (1960) di Bolognini, in splendida coppia con Marcello Mastrianni, all’indimenticabile Jill McBain di C’era una volta il West (1968) di Leone, ov’è donna in grado di superare con inusitata forza i cambiamenti epocali; alla Giuditta di L’anno del Signore (1969) di Magni, dove affianca un cast stellare; alla Carmela di Bello, onesto, emigrato Australia sposerebbe compaesana illibata (1971) di Zampa, in cui tenne testa ad Alberto Sordi; alla Maria Sarrazin de Le pistolere (1972) di Christian-Jacque, dove recitò con la pari icona Brigitte Bardot; alla Lucia Esposito de I guappi(1974), la Marta Compagna de L’arma (1978), dove disegnò ruoli drammatici da incorniciare, la Petacci in Claretta(1984), per il quale si aggiudicò il terzo Nastro d’argento: tre film di Squitieri, suo compagno di vita dal 1975, dopo la lunga relazione con il produttore Cristaldi; alla principessa Consuelo de La pelle (1981) della Cavani, che le valse il Nastro d’argento quale miglior attrice non protagonista; alla Ida Ramundo de La storia (1986) di Comencini, per il quale dovette sottostare al trucco che la invecchiava; alla Elena di Atto di dolore (1990), anch’esso di Squitieri, con cui vinse il Globo d’oro, e così via, tralasciando le partecipazioni teatrali, soprattutto negli anni Duemila, e le televisive. Mi piace anche ricordarla in Goodbye e amen di Damiano Damiani (1977), un poliziesco-spy di livello, in cui dispensa tutto il suo fascino in una claustrofobica stanza d’albergo, vittima di un sequestro operato dall’inarrivabile truce John Steiner, e con un grande Tony Musante.
Davvero complicato sintetizzare in poche note un percorso artistico ed esistenziale ricco come il suo. Con interpretazioni performate in un ampio ventaglio di forme cinematografiche (dal cinema d’autore a quello di genere, dalla commedia all’italiana, al western, al drammatico, allo storico, all’avventuroso, al giallo), la Cardinale è assurta a simbolo della transizione culturale che ebbe luogo in Italia sul finire degli anni Cinquanta, sull’onda del boom economico. Icona di stile, la sua immagine fu anche usata per rappresentare la nuova donna italiana: emancipata, sessualmente consapevole, in grado di solcare i marosi tra tradizione e modernità, una bellezza che definì un nuovo standard di femminilità sullo schermo e non solo. I nostri maggiori autori, con i quali stabilì un rapporto improntato alla stima e al rispetto reciproco, trovarono in lei una musa adatta ad incarnare i contrasti sociali che affligevano il Paese, veicolando attraverso lei quella forza motrice che trasformò il linguaggio cinematografico italiano. Fu davvero interprete del mondo, prestando il suo talento a produzioni francesi, spagnole, americane, contribuendo ad internazionalizzare il nostro cinema, con quel suo modo di entrare nei personaggi con immediatezza: “Per recitare usavo molto la mia vita interiore, il mio modo di essere attrice era di mettere me stessa dentro i miei personaggi” scrisse nella sua autobiografia.E la ricchezza interiore non si esauriva nel cinema; le idee progressiste, il piglio innovativo, l’hanno spinta all’impegno pubblico: dalla promozione del rispetto dei diritti umani con il sostegno di Amnesty International, alla sensibilizzazione della violenza sulle donne (ella stessa ne fu vittima poco più che adolescente), dell’ecologia, della comunità LGBTQ+, il sostegno al diritto all’indipendenza e all’istruzione; fu anche madrina di un’associazione per la lotta contro l’AIDS, nonché ambasciatrice di buona volontà dell’UNESCO. Non da ultimo, una fondazione che porta il suo nome ha lo scopo primario di aiutare i giovani artisti provenienti da ogni dove a farsi strada nel duro mondo dello spettacolo. È stata dunque una gran donna, che ha saputo impiegare per le migliori cause la meritata notorietà datole dal cinema, che l’ha consacrata una delle maggiori artiste del secolo passato.